...... confessioni di una (de)mente pericolosa.............

mercoledì 24 novembre 2010

Coma etilico 4

Click! KAWOOOMMMMM!
Un ruggito strozzato che riempie il locale e mi aggredisce alle spalle.
Sono lì, inginocchiata sul pavimento lurido di tempo, d’olio e di ruggine, impegnata a dirimere l’annosa questione dell’ ”a cosa diavolo serve quel tubo lì, da dove parte e dove cavolo va, boh?”.
Mi giro e lo guardo dubbiosa. E’ lì che mi fissa, nudo, con quel suo occhio rosso fiammeggiante.
La sua carenatura giace abbandonata in un cantuccio, segno che il bruciatorista che ha effettuato l’ennesimo intervento di riparazione contava di doverci rimetter mano a breve.
Sto lì per qualche secondo a rimirarlo incantata, assordata o forse solo inebriata dall’intenso puzzo di gasolio che aleggia nel locale. Altro che canne…….

Fa un cazzo di caldo e pure stavolta mi agguanta il “time warp”.
Per qualche momento, indietro nel tempo ci torno per davvero, a quando ero alta poco più d’un metro ed una pannocchia ed avevo una manciata d’anni già faticosi sulle spalle.
Il palazzo dove abitavo allora aveva dei sotterranei che il labirinto del Minotauro in confronto gli faceva una pippa: decine di cunicoli e corridoi pieni zeppi di tubazioni striscianti, caldi come l’inferno, oscuri come il punto più oscuro del medioevo, causa lampade defunte e mai sostituite a memoria d’uomo.
Pure il vano scala non scherzava, in realtà, mastodontico e con un intrico di pianerottoli e rampe che si intersecavano l’un l’altra senza soluzione di continuità.
Io e il mio Signor Padre una volta, siamo saliti ognuno dalla parte opposta all’altro, finendo rispettivamente io un piano sopra, lui un piano sotto al nostro, a guardarci dagli erronei pianerottoli con lo sguardo desolatamente bovide della mucca che osserva passare il treno.
Per la cronaca: Signora Madre uscì fuori sul pianerottolo giusto ridacchiando, “ma siete proprio deficienti!”
Eh.

Dov’ero?
Ah, si, dicevo, esattamente in fondo all’intrico di cunicoli striscianti, caldi ed oscuri stava il locale caldaia, perennemente chiuso a chiave e proibitissimo a noi ragazzini.
In verità, non avremmo potuto neppure metter piede nei cunicoli di servizio.
Che lì non ci si va. Punto.
Ovviamente era divenuto il luogo eletto per le nostre prove di coraggio.
Ci si avventurava in gruppo: “vai te, no prima, te, nonono io non ci vado, si vabbè vado io ma che razza di femminucce lagnose che siete. Oh, cos’era quella roba che ho pestato?”
Eravamo in cinque: io, Maurizio, Andrea, Franco e “Tornado”.
“Tornado” all’anagrafe faceva Carlo G. con la madre occupava uno dei miniappartamenti ricavati più o meno abusivamente dal proprietario nelle soffitte. Il soprannome lo doveva alla dieta quotidiana obbligata causa finanze ultraristrette della sua genitrice: patate lesse e aringa affumicata, alternate a frittatone di cipolle o minestrone.
Se passavi davanti al suo uscio sentivi odore di minestrone pure d’estate con 40 gradi all’ombra.
Il risultato era un puzzo di pesce affumicato e cipolla perennemente incollato addosso al poverino.
Senza contare che il minestrone gli creava dei problemi di meteorismo mica da ridere.
Era un bravo ragazzino, studioso, gentile e mingherlino, faceva parte della combriccola e nessuno di noi s’era mai minimamente sognato di allontanarlo solo perché aveva invariabilmente un alito in grado di farti le meches. Ti ci abituavi e fine.
Con gli anni ammetto che il mio naso è diventato infinitamente più stronzo ed intollerante, purtroppo. O per fortuna, non lo so.
Poi c’era l’Andrea che aveva sempre gli occhi pesti. Lui, ridendo, diceva che cadeva ed andava a sbattere, io sapevo che sbatteva si, sbatteva la faccia contro i pugni del suo vecchio che a chiamarlo padre quel bastardo ci voleva un gran coraggio.
“Tornado” con il suo minestrone, una madre che faceva del suo meglio e senza un padre perennemente alticcio e manesco, forse era più fortunato.
Erano altri tempi ed il “Telefono Azzurro” era di là da venire.
Ma questa è un’altra storia.

Anyway, ci si inoltrava nelle viscere dell’immaginario mostro d’acciaio, appropinquandoci  (appropinquandoci? hai cagato il vocabolario?) con cautela ed il cuore in bocca. 
Ci si fermava appena nelle vicinanze della portaccia di ferro, silenziosi, in attesa.
Si attendeva che il bruciatore entrasse in funzione, con il suo micidiale ruggito, vinceva chi resisteva stoicamente alla tentazione di scappare a gambe levate per la paura.
I più tosti di noi restavano lì, il più a lungo possibile, lo stomaco in acqua e le mutande inumidite di piscio, tornando indietro su zampette di paura malferme, eppure tronfi e compiaciuti d’aver resistito più degli altri. Piccoli pavoni crescono.
Alla fine, l’attesa spasmodica di quel botto diventava quasi un sottile, inconfessabile, prezioso piacere.
Non avevamo le idee ben chiare su cosa effettivamente succedesse dietro quella porta, gli adulti ci avevano semplicemente proibito di andarci senza fornire spiegazioni ed i nostri tentativi di sbirciare all’interno del locale erano frustrati da una porta piena di acciaio ed una grata troppo in alto per la nostra bassezza dei tempi.
La fantasia regnava sovrana, quindi, e, per farla breve, diciamo che le nostre “costruzioni mentali” di allora hanno anticipato di una buona decina d’anni l’arrivo di Terminator.
Forse avremmo dovuto chiederne il copyright.

Rientro nel presente, finisco i miei rilievi, l’amico dall’occhio infuocato è di nuovo silenzioso, vigile, in attesa di una nuova chiamata.
Mi rendo conto che sto sorridendo.
"Cazzona! Ma che fai? Sorridi ad una macchina?" Sbraita silenziosa la metà sana del mio cervello.
"No, no, pensavo…….." l’altra metà del mio cervello, imbarazzatissima, batte in ritirata.
Raccolgo la mia roba e mi avvio verso la porta.
Prima di uscire a riveder le stelle, mi volto e do un’occhiata complessiva al locale lurido: il bruciatore “decofanato”, la monumentale caldaia con la copertura in lamiera logorata dal tempo, il bollitore senza copertura con il termostato che penzola a mezz’aria tenuto su oramai solo per un filo, il camino quasi completamente corroso, il collettore fasciato come la mummia di Ramses per tenere insieme i brandelli d’un’isolazione marcia, le grosse pompe con le loro flange arrugginite, l’intrico di tubi per lo più nudi con i segni di saldature frettolose a chiuder perdite oramai incontenibili.
Eppure, quest’armata brancaleone di ferro e acciaio, seppur decisamente male in arnese, continua a servire puntuale da più di  trent’anni: ammaccato, marcito, arrugginito, certo, eppure questo cuore caldo continua a pompare, a filtrare, a distribuire, ad obbedire docile ad ogni chiamata dei tanti termostati sparsi in giro, a donare calore e comfort ad un sacco di ingrati freddolosi umani.
Se chiudo gli occhi per un secondo (oh, no, di nuovo il “time warp”…… echecazzo, ‘sta storia sta diventando vecchia, eh!) posso quasi vederla come doveva essere all’inizio: il locale nuovo pittato di fresco, il pavimento con le piastrelle linde, la caldaia con le sue lamiere scintillanti, il bollitore panciuto, i tubi nuovi, ben isolati, le pompe lucide e poderose pronte a tirar l’acqua in culo al mondo, i cavi elettrici ben ordinati nelle loro canaline ed il mio amico pronto a ruggire nella sua scintillante livrea blu elettrico.
E tocca proprio a me decretarne la fine.
“Baby, I’m your hangman”.
Tiro un sospiro che risuona triste persino alle mie orecchie, chiudo la porta, domani devo ricordarmi di ridare la chiave all’amministratore.
E’ il progresso, bellezza.

2 commenti:

rossaura ha detto...

Ma guarda qua sei riuscita a scucirmi pure una lacrima a causa di questa caldaia morta di vecchiaia e di incuria.
Finalmente è arrivato questo racconto che ti ho tanto solleticato e adesso temo che non scriverai più niente perchè credi di non essere capace di coinvolgere chi ti legge. Sarebbe davvero un grosso errore, visto come mi sento dopo la caldaia della tua infanzia e Tornado puzzetta e Andrea dagli occhi pesti...

MadDog ha detto...

Rileggendolo, mi sembra d'aver cucito insieme una lagna triste e deprimente e sgrammaticata anzichenò.
Eppure mi ricordo che eravamo anche felici.
Com'è che non riesco a farla venire fuori 'sta cosa?